La caraffa frantumata (il secondo libro dei «Dialoghi» di Gregorio Magno)

 Il secondo libro dei Dialoghi di Gregorio Magno è occupato per intero dalla vita di Benedetto da Norcia1, «uomo di vita venerabile, Benedetto di nome e per grazia, che fin da ragazzo aveva il cuore di un vecchio (ab ipso pueritiae suae tempore cor gerens senile)». «È questa», ci ricorda Salvatore Pricoco, «la prima e per lungo tempo unica testimonianza su san Benedetto, che – a differenza di altre figure della storia monastica di questa età, quali Cesario di Arles o Cassiodoro – non ha scritto di sé e sul quale nessuno dei contemporanei ha lasciato un solo cenno.» L’ordine e l’universo benedettino sono realtà ancora molto lontane e anche la mirabile Regola («una regola per i monaci, esemplare per la discrezione, brillante per la forma», dice Gregorio in una breve menzione) è solo una tra le tante che circolano all’epoca, e di certo non la più diffusa, anzi. Come il resto dei Dialoghi, anche la Vita e miracoli del venerabile abate Benedetto (questo il titolo completo) è stata oggetto dapprima di una diffusione senza pari2 e poi di uno studio indefesso, che ha portato alla messa in discussione della paternità autoriale di papa Gregorio. La questione si potrebbe dire ancora aperta, anche se la mozione di un autore anonimo (il cosiddetto «Dialoghista»), che avrebbe scopiazzato da varie opere del pontefice, utilizzandone anche degli scritti per così dire inediti, mi pare sia da considerarsi di minoranza.

Le pagine famose, belle, interessanti o gustose sono innumerevoli, la più nota e commovente essendo forse quella dell’incontro di Benedetto con la sorella Scolastica. Oggi mi prendo qualche libertà con la storia raccontata nel capitolo 3, La caraffa di vetro spezzata con un segno di croce.

* * *

Benedetto ha lasciato Roma, è vissuto circa tre anni in solitudine a Subiaco, ha superato diverse prove e comincia a essere conosciuto nei dintorni «per la fama della sua eccellente condotta di vita». Una comunità di monaci dei dintorni, rimasta senza abate, gli si rivolge: Vieni da noi, ti preghiamo, guidaci tu. Benedetto esita: Guardate che non può andare, siamo troppo diversi voi ed io… E quelli insistono, no, no, dai; Benedetto acconsente, ma poi non dite che non vi avevo avvertito.

Benedetto si installa e cambia musica, subito, proibendo tutte le storture che quelli «erano soliti fare prima». In capo a qualche giorno, i monaci sclerano; prima si accusano a vicenda: noi non lo volevamo come abate, voi avete insistito, e questo è il risultato, complimenti! Poi, «siccome è difficile per una mentalità ormai invecchiata costringersi a pensare in modo nuovo», «si dettero a ricercare il modo di ucciderlo» – risolviamo alla radice.

Detto fatto. Gli avveleniamo il vino, ma quando gli viene posto dinanzi, affinché com’era usanza lo benedica, Benedetto traccia il segno della croce e la caraffa, «che pure era tenuta un po’ discosta da lui», va in frantumi. Benedetto capisce, si alza, non si scompone e si rivolge ai monaci: Ma siete matti?! Che Dio vi perdoni! Ve l’avevo detto, no?, che non avrebbe funzionato! «Andate perciò a cercarvi un abate adatto a voi, perché dopo questo incidente [chiamalo incidente] non potete più avere me.» Vi saluto, me ne torno nella mia grotta.

* * *

Sollecitato dal suo interlocutore, Pietro, Gregorio ne approfitta per svolgere una questione che lo tocca da vicino. Benedetto ha fatto bene a non insistere, anche se andandosene ha abbandonato i monaci alla loro malizia. La situazione era irrimediabile e se Benedetto si fosse incaponito, si sarebbe consumato inutilmente «giorno dopo giorno nello sforzo di correggerli» e avrebbe finito per trascurare la propria anima e magari perdersi. Ed ecco la massima riassuntiva che Gregorio in fondo, con malcelata mestizia, rivolge a se stesso: «Ogni volta infatti che ci facciamo trascinare troppo fuori da noi stessi perché agitati dai pensieri, continuiamo a essere noi ma non siamo più con noi perché, perdendo di vista noi stessi, ci disperdiamo di qua e di là».

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  1. Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), volume I (Libri I-II), introduzione e commento a cura di S. Pricoco, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori 2005.
  2. «I Dialoghi sono stati accompagnati per secoli da una fortuna quale pochi scritti di età altomedievale, o forse nessuno, hanno avuto» (Pricoco).

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Benefici fiscali per gli anacoreti

Nel capitolo 44 della Vita di Antonio – quella che gli americani chiamerebbero the blueprint for the monk prototype – Atanasio (vescovo di Alessandria) descrive brevemente e con un certo trasporto gli effetti dell’esempio e degli insegnamenti di Antonio (al capitolo precedente si è appena conclusa la relazione della «grande catechesi ai monaci»), che si era ritirato nel deserto per condurre una vita di ascesi e preghiera1.

Le parole di Antonio colpiscono tutti: i buoni gioiscono e avanzano nel bene, i manchevoli ne traggono conforto per non disperare e «altri ancora mutavano convinzioni» (virtù, questa, tra parentesi, poco sottolineata rispetto, ad esempio, a quella taumaturgica; e quanto mai invece notevole, soprattutto oggidì: quando abbiamo visto qualcuno, di recente, cambiare opinione in seguito alle parole di un altro?). Tutti si sentono pronti per affrontare le insidie e le tentazioni dei demoni e così, come Atanasio aveva proclamato in precedenza, «il deserto divenne una città di monaci che avevano abbandonato i loro beni e si erano iscritti nella cittadinanza dei cieli»2. Nei loro insediamenti lontani da città e villaggi i nuovi monaci leggono le Scritture, cantano i Salmi, digiunano, pregano, lavorano per sostenersi e per fare l’elemosina, vivono «in amore e concordia vicendevole».

Una regione solitaria e selvaggia, grazie a questa migrazione, diventa un tempio a cielo aperto, consacrato al servizio di Dio e della giustizia, tanto che, come recita la versione latina, «nemo enim erat ibi qui iniuste tractabatur, neque laesus exigentibus tributa», cioè, dal greco, «non c’era là nessuno che patisse ingiustizia o si lamentasse degli agenti del fisco»… Eh già.

Certo, l’assoluta povertà monastica metteva al riparo anche dalle tasse… Commentando proprio quel passo della Vita di Antonio, Pier Cesare Bori scrive: «Probabilmente però, accanto alle motivazioni ideologiche, esistono delle spinte sociali ben concrete all’“anacoresi” (che traspaiono anche dall’immagine paradisiaca sopra evocata: il ricordo dell’esattore!); il fenomeno dell’anacoresi è anzitutto la fuga, la diserzione da una società ingiusta e opprimente: “Fuggiremo dove possiamo vivere da uomini liberi!” dice un’iscrizione egiziana del tempo, già all’inizio del secolo III.

«Il monachesimo si configura così più che mai in questo caso come progetto di una società altra dal presente.»3 Sempre pratici, i monaci, sin dal principio.

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  1. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, introduzione, traduzione e note di L. Cremaschi, Paoline 202310, p. 131-32. Alla studiosa tante volte citata in questo blog devo anche il suggerimento del saggio di Pier Cesare Bori, menzionato più avanti. Da ricordare altresì la Vita di Antonio, introduzione di Ch. Mohrmann, testo critico e commento a cura di G.J.M. Bartelink, traduzione di P. Citati e S. Lilla, (Vite dei santi; I) Fondazione Valla / Mondadori 1974.
  2. La versione latina dice: «Il deserto si riempì di eremiti, uomini che erano usciti dalle proprie case e avevano abbracciato una vita celeste».
  3. Pier Cesare Bori, Chiesa primitiva. L’immagine della comunità delle origini (Atti 2, 42-47; 4, 32-37) nella storia della chiesa antica, Paideia 1974, p. 154. Da parte sua, Lisa Cremaschi cita un editto del 370 dell’imperatore Valente che ordina di «ricercare i monaci egiziani considerandoli dei disertori ritiratisi nel deserto, “con il pretesto della religione”, per fuggire gli obblighi della società civile». A tutti gli effetti un WANTED – EGYPTIANS MONKS.

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Fare pancia (Dice il monaco, CXXXIV)

Dice Gregorio Magno, prima monaco, poi papa, intorno al 586:

Sbaglia a ritenersi retto chi ignora la regola della rettitudine massima. Spesso viene considerato dritto un legno se non lo si accosta a un regolo. Ma quando esso viene fatto combaciare col regolo, allora si scopre quanto quel legno sia storto e faccia pancia [sed cum regulae iungitur, per quantam tortitudinem tumescit invenitur], poiché la rettitudine disgiunge e condanna ciò che l’occhio ingannandosi approvava.

♦ Gregorio Magno, Moralia in Iob, V, 67, citato in Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), volume I (Libri I-II), introduzione e commento a cura di S. Pricoco, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori 2005, p. 313.

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Lattughe e relativi condimenti (il primo libro dei «Dialoghi» di Gregorio Magno)

 Già che ho messo il piede nel mirabile Prologo del primo libro, mi son detto, perché non leggerli, una buona volta, i Dialoghi di Gregorio Magno? Una di quelle opere così sovraccariche di commenti, studi critici, apparati filologici e così disseminate in citazioni di ogni tipo che rischio spesso di dare per scontate, se non acquisite: ah, certo, i Dialoghi, la Vita di san Benedetto1

Senza la minima pretesa di cogliere dettagli passati inosservati – di questo genere di opere tutto è stato già colto da generazioni di lettori attrezzatissimi2 –, è molto bello leggere in libertà e soffermarsi sui particolari che attirano la propria attenzione, come se si fosse lì con il diacono Pietro ad ascoltare i racconti di un papa (590-604) un po’ stanco e senza tiara.

Alcune annotazioni sembrano perfette per confermare persistenti modi dire, come «certe cose non cambiano mai»: «Si diceva allora in giro [rumor exierat] che nel monastero di quel servo di Dio ci fosse molto denaro»; o «l’abito non fa il monaco»: l’abate Equizio «indossava vesti molto modeste ed era di aspetto così dimesso che, se avesse salutato uno che non lo conosceva, costui avrebbe disdegnato di rispondere al saluto».

Ci si imbatte spesso in opinioni espresse chiaramente in prima persona: «Io considero [ego enim… credo] la virtù della pazienza più importante di segni e miracoli»; «Io invece ritengo, Pietro…» [Ego, Petre… existimo]; «Io ho sempre gradito parlare con persone anziane» [Mihi senum conlocutio esse semper amabilis solet]; allo stesso modo è evidente come talvolta Gregorio non stia parlando di altri che di sé: «Il fatto è che il cumulo delle incombenze rovina l’anima di ogni vescovo; e quando essa si divide in più occupazioni, si svilisce in ciascuna di queste».

C’è un vasto insieme di spunti che testimoniano «la modestia sociale del clero e le difficoltà economiche della chiesa» (una «chiesa minore, non opulenta né autoritaria», la cui povertà peraltro aiuta a custodirne l’umiltà) e l’attenzione verso gli aspetti più basilari, come l’alimentazione: seminare, raccogliere, galline, finito l’olio, anche il vino, per non parlare del grano, un po’ di erbe aromatiche, ecc. Al capitolo 3 troviamo il monaco ortolano che scaccia il ladro che gli devasta l’orto con l’aiuto di un serpente; poi scopriamo che l’occasione di tentazione per una monaca, che scatena l’azione del diavolo, è un’innocente insalata: «Adocchiata una lattuga [lactucam], le venne il desiderio di mangiarla»; quando un emissario del papa va a cercare Equizio, lo trova impegnato a falciare il fieno e si sente rispondere: «Finisco il lavoro e ti seguo»; il presbitero Severo rimanda un intervento perché «in quel momento era casualmente occupato a potare la sua vigna»; i confratelli di Martirio che «cuocevano il pane sotto la cenere e si dimenticarono  di imprimere con un pezzo di legno il segno di croce sul pane crudo in modo che sembrasse diviso in quattro parti» (come si usa da quelle parti, aggiunge Gregorio); ancora cogliamo il priore Nonnoso mentre osserva le balze scoscese (del Soratte) su cui sorge il suo monastero, e «si mise a pensare che quel piccolo spazio avrebbe potuto essere adatto almeno a farvi crescere gli aromi con cui condire la verdura» – il miracolo sta, è ovvio, nel potere della preghiera (che libera il «piccolo spazio» dai sassi): «È veramente meraviglioso che Dio si degni di esaudire le preghiere di chi spera in lui, anche in cose di poco conto», nondimeno le verdure saranno diventate più saporite…

La dimensione di questi racconti e dei relativi miracoli è prevalentemente rustica, paesana, centro Italia, si deve sgobbare, ci si ammala la mattina e si muore la sera, sera in cui non si può che stare intorno al fuoco, i Goti imperversano (e bevono «da Goti»), i cavalli costano… ma anche dal più piccolo segno si può trarre una lezione morale, tutt’altro che piccola, e nelle più piccole circostanze si può trovare la prova di una grande santità. Ci pensi? chiede a un certo punto Gregorio a Pietro. Eccome, risponde Pietro, «e resto stupefatto».

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  1. Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), volume I (Libri I-II), introduzione e commento a cura di S. Pricoco, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori 2005.
  2. Erich Auerbach, tanto per dire, ha scelto tre racconti di Gregorio e li ha analizzati «come esempio di “realismo” medievale e di stile popolare».

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Il mare, davanti, di fianco e di dietro (Riccardo di San Vittore)

 Per prolungare la sosta presso la prestigiosa Scuola di San Vittore ho letto il De exterminatione mali et promotione boni di Riccardo1, che è un bel trattato di avviamento alla contemplazione dei cælestia, composto intorno al 1160, non molto prima che dell’abbazia parigina che ospitava la suddetta scuola Riccardo diventasse priore2.

È un testo pieno di immagini e metafore acquatiche (mari, fiumi, torrenti, onde, correnti, abissi), soprattutto nel Libro primo, che per svolgere l’argomento del disprezzo del mondo e di sé prende le mosse dal versetto 5 del Salmo 114 (113), quello che comincia con «In exitu Israël de Ægypto» e prosegue celebrando l’elezione di Israele e l’ossequio degli elementi «al passaggio della maestà divina attraverso il popolo». Dice appunto il versetto: «Che hai tu, mare, per fuggire, / e tu, Giordano, per volgerti indietro?»3, ricordando i famosi episodi di Mosè «che stese la mano sul mare» e della traversata prodigiosa del Giordano di Giosuè e degli israeliti. Curiosamente, per la sensibilità moderna, il mare di Riccardo è prevalentemente un’immagine negativa, «infatti il peccato è il mare, dal momento che non è in grado di fornire acqua dolce».

Il disprezzo del mondo e di sé sono due passaggi obbligati, come lo furono quelli appena ricordati. Quando gli israeliti uscirono dall’Egitto, dapprima il mare era davanti al loro come un ostacolo; poi, quando si aprì, fu difesa sui due lati; infine, alle spalle, fu sicurezza. Allo stesso modo «il mare di fronte a noi è la paura dei pericoli futuri. Il mare di fianco a noi è la fatica delle lotte che incombono. Il mare dietro a noi è il dolore delle malvagità compiute». E ancora, il mare, questa «onda di amarezza», per taluni è qui, nella vita/via presente, per altri è al di fuori di questa vita/via; il dolore per i beni eterni che temiamo di perdere «è il mare a destra», quello per i mali eterni che temiamo di meritare «è il mare a sinistra»: «Con ragione, se siamo ragionevoli per entrambi dobbiamo avere timore, soffrire e piangere […]. Abbiamo così un doppio mare che ci fa inesorabilmente da muro, da entrambe le parti».

E ancora, attraversare sì, ma rendendosi conto del miracolo: considerate, infatti, «se sia stato forse sufficiente per noi e per voi l’aver mutato luogo, ma non l’animo; coloro che corrono al di là del mare cambiano la condizione ma non l’animo» (qui un corsivo, mio ci sta). Bisogna quindi uscire dall’Egitto con il corpo, ma anche con il cuore, ma questo secondo «passaggio» non è cosa di un momento. Il disprezzo del mondo è «affare di un giorno», il disprezzo di sé è il lavoro di una vita: «È duro, difficile, grandioso, abbandonare sé stessi, esaminarsi in profondità e disprezzarsi fino in fondo, mettersi del tutto alla prova e respingersi completamente». Poco alla volta bisogna educarsi, imparare, cambiare… cioè far sì che la dolcezza ingannatrice dell’acqua del «torrente della cupidigia carnale» si annulli nell’amarezza del mare, che il peccato si sciolga nella penitenza, che poco alla volta il flusso («l’impeto violento della carne») languisca e infine si arresti… Inverti la corrente, come accadde al Giordano, non lasciare che le acque fluiscano in basso, «non sai che tutte le acque che scorrono verso il basso scendono al mare? Tutti i fiumi si gettano nel mare e ogni infimo desiderio si risolve in dolore».

Come mi piacerebbe sapere se nella sua non lunga vita, una cinquantina di anni passati per la maggior parte nell’abbazia di Parigi, dopo una, pare, brevissima infanzia scozzese, irlandese o inglese, Riccardo abbia mai passato una giornata di totale sereno su una spiaggia inondata dal sole più caldo e battuta dai cavalloni. Secondo me no (ma non gliene faremo una colpa).

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  1. Riccardo di San Vittore, Lo sterminio del male (De exterminatione mali et promotione boni), a cura di D. Racca, Il leone verde 1999.
  2. E non si dimentichi l’apprezzamento dantesco: «Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro / d’Isidoro, di Beda e di Riccardo, / che a considerar fu più che viro» (Paradiso, X, 130-132).
  3. «Quid est tibi, mare, quod fugisti? / et tu, Jordanis, quia conversus es retrorsum?»

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Sarebbe meglio (Il disprezzo del mondo di Ugo di San Vittore)

 Si fa presto a dire «disprezzo del mondo». E si fa presto a pensare che si tratti di un tema ricorrente della letteratura monastica, si direbbe connaturato a essa, che nel tempo si sia fossilizzato fino a diventare uno «standard» che, pur con variazioni di stile, sia stato eseguito sempre più o meno nella stessa maniera: «Si è pensato al contemptus mundi come a un fenomeno caratterizzato da una omogeneità tematica tanto forte da giustificare l’ipotesi di una certa povertà d’ispirazione, di una mancanza di «impegno» che rivelerebbe un compiaciuto indulgere a un luogo comune. Di qui il disinteresse per i vari trattati sul disprezzo del mondo, che si limiterebbero a ripetere monotonamente alcuni determinati clichés, una serie di motivi consunti dalla tradizione». Il libro di Francesco Lazzari1 aiuta a dissipare l’errore, e lo fa, dopo un’accurata ricognizione delle opere in questione: oltre milleduecento anni di disprezzo, dalla prima compiuta teorizzazione di sant’Ambrogio (De fuga saeculi) alle esauste propaggini seicentesche, concentrandosi sugli autori della Scuola (dell’abbazia parigina) di San Vittore, i mai troppo considerati «vittorini», in particolare Ugo (m. 1141) e il suo allievo Riccardo (m. 1173), tra i massimi protagonisti di quella che l’autore chiama «la grande fioritura del XII secolo» e che raggiunse il suo culmine con l’«esasperata violenza» del famoso De miseria humanae conditionis di Lotario di Segni, poi Innocenzo III2.

La miseria della condizione umana: secondo alcuni interpreti, come ricorda l’autore, questa dottrina che stabilisce l’antagonismo tra cielo e terra sarebbe «alle radici stesse del cristianesimo» e quindi «sarebbe responsabile, almeno in parte, del dramma dell’epoca moderna in Occidente». Il Lazzari non aderisce a tale visione e sostiene che il contemptus mundi «è aspirazione a Dio, desiderio di purezza, ma non per questo chiusura totale di fronte alla “società”. […] l’atteggiamento negativo di rifiuto non vi si dissocia mai da una volontà positiva di trasformazione del mondo». Non è altresì un atteggiamento astratto e disincarnato, bensì una posizione di rottura col mondo che «contrasta con l’ingenuo sentimento di fusione in cui vive l’uomo che è perso nella banalità del quotidiano». È l’esperienza di un individuo, per esprimere la quale ha sì a disposizione un ventaglio di cliché, ma che non esclude il proprio accento personale diverso da autore ad autore.

Nel De vanitate mundi di Ugo, ad esempio, il disprezzo è esortazione alla scoperta dell’autentico slancio della condizione umana che non può esaurirsi nell’orizzonte terreno. «Ugo dimostra chiaramente di amare la vita e di saperne apprezzare gli aspetti positivi», ma è oppresso dalla caducità, dalla transitorietà di tutto ciò che possiamo amare – persone e cose – e dall’angoscia che ne deriva: «Il contemptus nasce dal confronto tra il desiderio umano e l’incapacità delle cose ad appagarlo, tra l’aspirazione alla felicità e lo spietato rifiuto del mondo». Non resta, pertanto, che estirpare il desiderio (qui, tra l’altro, il Lazzari ricorda l’osservazione di Jaspers che stabiliva un parallelo «tra alcune posizioni del contemptus mundi medievale e il nucleo essenziale della Weltanschauung buddistica»).

«Sarebbe meglio», dice un po’ sottovoce Ugo, «che nessuno dei viventi morisse piuttosto che nascesse qualcuno destinato a sopravvivere a chi muore», un’affermazione che ha fatto dire a uno studioso tedesco che pare che «in queste parole sia racchiusa una tragica insoddisfazione per l’opera creatrice di Dio». E ancora: «Le forme delle cose visibili sono foglie [Si sta come d’autunno…]; che all’inizio sembrano belle e verdi, ma cadono all’improvviso quando arriva la tempesta». Bisogna però notare, avverte il Lazzari, che «dal tono sconsolato della considerazione sull’inevitabilità della morte, trapela quell’amore della vita che è l’elemento fondamentale del De vanitate mundi: «Sopportiamo qualunque rimedio del nostro dolore, ma non pensiamo che in esso risieda la gioia della felicità».

Perché il disprezzo per Ugo non è fine a se stesso, bensì strumento per raggiungerla, questa benedetta felicità; il contemptus mundi è infatti la premessa necessaria dell’amor Dei, in cui il tempo si annulla, e soprattutto si annullerà («L’instabilità degli istanti che compongono il tempo è la prova più eloquente della sua mancanza di valore»), e l’essere trova, e soprattutto troverà la sua stabilità e infine la sua pace3.

Se transeunte è ciò che l’uomo ha, non meno di ciò che egli è, Ugo, e il tempo è dolore, forse possiamo accontentarci anche del suo annullamento.

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  1. Francesco Lazzari, Il contemptus mundi nella Scuola di S. Vittore, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli, 1965.
  2. Che, detto tra parentesi, è uno dei testi che mi ha sospinto verso le «cose monastiche».
  3. «Il significato del contemptus mundi nella dottrina di Ugo non è dunque l’isolamento per l’egoistico scopo di una salvezza di sé che abbandoni tutto il mondo alla nullità e alla perdizione. È un riscatto di cui l’uomo solo può decidere, ma che tocca ogni essere, mira a salvare la bellezza di ogni vita, rendendola nel suo essere per Dio libera da ogni strumentalità rispetto al desiderio umano.»

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Che fretta abbiamo? (Dice il monaco, CXXXIII)

Scrive Atanasio, vescovo di Alessandria, intorno al 360, riferendo le parole di Antonio a proposito dei demoni che insidiano il monaco in solitudine – ma non soltanto lui – suggerendo previsioni:

Anche i medici, che hanno esperienza delle malattie, se vedono in alcuni la stessa malattia che hanno visto in altri, bassandosi sulla loro consuetudine con quel tipo di male, possono fare previsioni. Anche chi guida le navi e i contadini, quando vedono il cielo, sanno predire, grazie alla loro esperienza, se vi sarà tempesta o bel tempo, ma non per questo si può sostenere che abbiano fatto tali previsioni per ispirazione divina, ma solo in base all’esperienza e alla consuetudine. Perciò, anche se i demoni, congetturando, predicono qualcosa di simile, non li si deve ammirare, né prestar loro attenzione. Che utilità c’è, per chi li ascolta, a saper da loro, alcuni giorni prima, quel che accadrà? Che fretta abbiamo di conoscere queste cose, anche se sono vere? Non giova certo a renderci virtuosi, né è segno di una buona condotta. Nessuno di noi viene giudicato per non aver saputo alcune cose e nessuno viene proclamato beato perché le ha sapute e le conosce, ma su questo ciascuno viene giudicato: se ha custodito la fede e se ha osservato fedelmente i comandamenti.

♦ Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 33, 3-6, introduzione, traduzione e note di L. Cremaschi, Paoline 202310, p. 121.

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Come si vola in una giornata tranquilla (san Columba e Iona)

 Dopo oltre tredici anni ho riletto la Vita di san Columba di Adamnano di Iona, sia perché nel frattempo ne è uscita una traduzione italiana1, sia perché è uno dei rari testi che conosco che mantiene con il «suo» luogo un rapporto molto forte: a suo tempo ho visitato l’abbazia di Iona, e l’impressione di essere lì, dove e quando si svolgono i fatti narrati da Adamnano, forse non è stata del tutto illusoria. Quando ad esempio, subito al capitolo 4 del primo libro, Columba profetizza l’arrivo di alcuni ospiti all’abbazia e uno dei fratelli dice: «Chi può attraversare lo stretto in sicurezza, per quanto corto sia, in un giorno così pericoloso e tempestoso?», chi è stato a Iona non può non ricordare il piccolo braccio di mare che la separa dall’isola di Mull e il traghettino che si prende per raggiungerla…2

(foto Potts)

 Comunque, devo dire che me la ricordavo abbastanza bene, la Vita di san Columba. Questa volta mi hanno colpito soprattutto gli episodi nei quali sono presenti, protagonisti o meno, degli animali. Perché va da sé che il santo, oltre a essere in prefetta comunione con Dio, lo è con i pensieri degli uomini, con i movimenti della natura (sole pioggia, acqua terra, mare vento tempesta) e appunto con gli animali, quelli buoni, che vanno aiutati con generosità, quelli smisurati, che vanno temuti e magari evitati, quelli cattivi, che vanno affrontati con fermezza – un po’ come accade per le circostanze della vita.

Quindi balene, che rendono pericolose le frequenti navigazioni tra un’isola e l’altra; mucche che si smarriscono; foche, anzi, come dice il santo, «le nostre giovani foche… allevate e nutrite» in un’isoletta vicina (cibo per gli ospiti, pelle, olio); salmoni «di dimensioni stupefacenti» che si offrono al santo; cinghiali bloccati dalle preghiere; mostri acquatici (proprio lui, il mostro di Loch Ness) respinti negli abissi; serpenti neutralizzati…

La storia più bella è raccontata nel capitolo 42 del primo libro, intitolato Prescienza e profezia del santo su una questione di minore importanza, ma così bella [appunto] che non credo possa essere taciuta. Un giorno, sempre a Iona, Columba chiama un fratello e gli dice: «La mattina del terzo giorno da questa data devi sederti e aspettare sulla costa dal lato occidentale di quest’isola, perché una gru, che è straniera in queste regioni settentrionali ed è stata spinta qui dai venti, verrà, stanca e affaticata, dopo l’ora nona, e si coricherà davanti a te sulla spiaggia, completamente esausta». Pertanto Columba incarica il monaco di trovare un ricovero adatto, dove l’animale (che il santo sa essere irlandese, conterraneo), nutrito, possa riprendersi e poi ripartire. Naturalmente, «come il santo aveva predetto, così avvenne». La gru arriva, stremata, viene raccolta («dolcemente»), curata, sfamata; infine si riprende e il terzo giorno (!) si alza in volo e «diresse la sua corsa attraverso il mare fino all’Irlanda, andando sempre dritto, come si vola in una giornata tranquilla».

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  1. Sentinelle sull’isola. Vita di san Columba d’Irlanda, Cuthberth di Farne e degli Abati di Jarrow, a cura di A.M. Osenga, Monasterium 2024.
  2. Lo stretto che separa Iona da Mull è assai presente nel testo di Adamnano, tanto che lui stesso comincia un capitolo con queste parole: «Una domenica si udì un forte grido oltre lo stretto, di cui parlo così spesso»…

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Contraddizioni, rumori e odori

Il mio interesse per le «cose monastiche» preesisteva a queste note vagamente e teoricamente pubbliche e continuerà dopo la loro fine. È un interesse come un altro? È mera evasione in un mondo di carta più presentabile di quello popolato da draghi e maghi? È un’altra manovra del ben noto programma di idealizzazione di sé?

O è, invece, un «gesto magico», come quello dei pellegrini di Santiago che toccavano la testa scolpita del maestro Mateo nella speranza che un po’ della sua sapienza e del suo talento si trasferisse a loro? Sarebbe bello se fosse così. Sarebbe bello se fosse almeno un’aspirazione a quella «correzione dei difetti» di cui parla san Benedetto nel Prologo della sua Regola.

La domanda mi si è riproposta mentre leggevo l’articolo del vescovo-monaco Erik Varden, sull’«attualità» della Regola e sull’utilità di andare, oggi, «a lezione da san Benedetto»1, che prende avvio proprio dal famoso Prologo e dal concetto di «scuola del servizio del Signore». Secondo Varden «la schola di cui parla Benedetto è un luogo in cui si impartisce la conoscenza, certo; ma ancor più essenzialmente è un luogo di iniziativa in cui si crea qualcosa di nuovo. Questo qualcosa è un modello innovativo di comunità che riunisce liberamente degli uomini per mezzo di un patto di vita e un obiettivo chiaro».

Per illustrare tale modello, anzitutto Varden richiama l’attenzione per contrasto sulle tre categorie di monaci (cioè di persone?) in qualche modo opposte a quella dei cenobiti; tre categorie che rimandano a riconoscibili modi di esistenza contemporanea: gli eremiti, che, provati alla scuola comunitaria, si ritirano in solitudine, dove il cimento si fa ancor più arduo, con tutti i rischi che ciò comporta (forse soprattutto di autocompiacimento); i sarabaiti, che «hanno come unica legge l’appagamento delle proprie passioni» e che «incontriamo normalmente nella vita di tutti i giorni»; i girovaghi, che non si fermano mai da nessuna parte, girano in tondo e non concludono niente, «e anche qui riconosciamo una tipologia di persona diffusa nel nostro tempo, dove si dispiega un movimento circolare destinato a un non-arrivo, non solo nello spazio materiale o entro i confini intricati della mente umana, ma nelle vaste e aride distese di internet».

In opposizione a ciò nella scuola di comunità, tra i cenobiti, si impara a conoscersi, a perseverare, a non disperdersi, a moderare appetiti e voglie, a placare la rabbia, a perdonare e a essere pazienti, e tutto questo insieme. Più che impararlo, infatti, ce lo si insegna. La correzione dei difetti, per fare un esempio e per tornare a essa, è infatti un programma che può essere soltanto collettivo, da svolgere nell’ambito di quella comunità che «libera l’uomo dalle illusioni sull’umanità e su sé stesso e gli insegna ad affrontare l’umanità nella sua complessità, con le sue contraddizioni interiori ed esteriori, i suoi rumori e odori, e con la sua capacità di grandezza. Invece di sognare tediosamente un “popolo” teorico, impara, attraverso la battaglia, ad amare le persone così come sono».

A questo punto Varden sviluppa il gioco di parole anticipato dal titolo del suo articolo, in base al quale la schola Dei, di Dio, benedettina può diventare una schola DEI, dedita alla diversità, all’equità (che non è sovrapponibile all’eguaglianza) e all’inclusione: tre concetti aggiornatissimi e dai risvolti eminentemente pratici centrali nella Regola, compresa a loro eventuale degenerazione. Ma per il momento mi accontenterei di non dimenticare che qualsiasi programma di correzione, da opporre al dilagare della ininterrotta assoluzione di sé, e per non essere una «pia illusione» o una storiella che ci si racconta prima di addormentarsi, ha sempre bisogno di altri, contraddizioni, rumori e odori compresi.

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  1. Erik Varden, Schola Dei o schola DEI? A lezione da san Benedetto, in «Vita e Pensiero», CVIII, 3, maggio-giugno 2025, pp. 57-68.

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Quando funziona (Dice il monaco, CXXXII)

Dice Erik Varden, monaco cistercense, già abate del monastero trappista di Mount Saint Bernard, in Inghilterra, dal 2020 vescovo di Trondheim, in Norvegia:

Chiunque abbia modo di vedere una comunità monastica procedere verso la chiesa per celebrare il vespro resta colpito dalla sua uniformità. I monaci indossano gli stessi abiti, tengono lo stesso passo, replicano gli stessi gesti e, idealmente, cantano intonati. Ma chi conosce una comunità in prima persona, tuttavia, è colpito dalla sua varietà, spesso francamente improbabile. C’è qualcosa nella vita monastica che, quando questa funziona, libera il carattere. Per anni ho riflettuto su una cosa che Ingmar Bergman una volta disse dei suoi film: l’elaborazione di materiale complesso richiede rigore della forma. La vita monastica offre a coloro che sono chiamati a viverla una struttura formativa che consente alla personalità di prosperare.

♦ Erik Varden, Schola Dei o schola DEI? A lezione da san Benedetto, in «Vita e Pensiero», CVIII, 3, maggio-giugno 2025, pp. 57-68.

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